Cosa spinge le persone a scegliere di agire in un modo piuttosto che in un altro?

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Fare jogging o starsene a casa in relax davanti alla tv? Andare in vacanza o risparmiare? Proseguire negli studi o cominciare a lavorare? Sposarsi o rimanere ancora in casa dei genitori? Sono questi solo alcuni esempi di scelte, tra bisogni spesso contrapposti, con i quali ciascuno di noi si trova a confrontarsi in un determinato momento della propria vita. Ma perché le persone scelgono di fare una cosa piuttosto che un’altra? Per rispondere a questa domanda è utile parlare delle motivazioni.

Nella vita privata come in quella lavorativa gli esseri umani si impongono obblighi, pensano a progetti più o meno grandi ed immaginano scenari futuri, essendo guidati da una serie di motivazioni. Col termine motivazione si fa riferimento alla spinta interiore, ovvero all’insieme dei bisogni/motivi, che induce l’essere umano ad agire in una determinata maniera; essa è riconducibile a interessi e obiettivi diversi ed è condizionata sia da aspetti emotivi che cognitivi.

Da quando i ricercatori hanno cominciato a studiare i processi motivazionali dell’uomo, sono stati compilati diversi elenchi, più o meno estesi, dei motivi che guidano nella scelta dei comportamenti e tutti concordano sull’esistenza di tre bisogni fondamentali:

• il bisogno di potere;

• il bisogno di successo;

• il bisogno di appartenenza.

Gli individui che sono motivati dal bisogno di potere vogliono sentirsi superiori agli altri; essi vengono distinti in due categorie, quelli guidati dal potere personale i quali tendono a dirigere gli altri, e quelli guidati dal potere sociale o istituzionale i quali tendono ad organizzare gli sforzi degli altri con la finalità di far raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione a cui appartengono. Gli individui motivati dal successo, invece, cercano di perfezionarsi continuamente e di eccellere sempre e per questo motivo tendono a evitare situazioni sia a basso che ad alto rischio. Gli individui motivati dall’appartenenza, infine, desiderano relazioni sociali armoniose e di sentirsi accettati dagli altri.

Normalmente, in ogni individuo coesistono tutti e tre questi bisogni, anche se uno è prevalente in base alla personalità.

I bisogni di potere, successo e appartenenza sono detti primari (o impliciti) poiché svincolati dalla coscienza e presenti ancor prima che si sviluppi il linguaggio; essi sono particolarmente connotati dal punto di vista emotivo in quanto legati prevalentemente all’attività di regioni antichissime del cervello coinvolte proprio nello sviluppo delle emozioni. A questi bisogni vengono contrapposti quelli acquisiti (o espliciti) i quali sono influenzati, da un lato dalle valutazioni, dai giudizi e dai desideri delle persone più care e dall’altro dalle norme culturali. I bisogni espliciti sono un complesso mix di intenzioni strategiche e desideri propri, ma anche di aspettative altrui e vanno a costituire una sorta di “immagine motivazionale” di sé che ciascun individuo possiede.

Naturalmente le motivazioni implicite e quelle esplicite non sono svincolate le une dalle altre, e le seconde vengono costruite a partire proprio dalle prime.

Le motivazioni sono anche classificate come intrinseche (cioè attivate dall’interno) o estrinseche (cioè attivate dall’esterno). Una motivazione viene definita intrinseca quando un individuo si impegna in un’attività perché la trova stimolante e gratificante di per sé, e prova soddisfazione nel sentirsi sempre più competente. Ne sono esempi, uno studente che studia perché trova piacevole questo tipo di attività, una persona che sceglie un lavoro perché le dà grosse soddisfazioni personali, un’altra che fa uno sport perché ama farlo. Si parla, invece di motivazione estrinseca quando un individuo si impegna in un’attività per scopi, quali ad esempio ricevere lodi, riconoscimenti, buoni voti, oppure per evitare situazioni spiacevoli come un castigo o una brutta figura, che quindi non riguardano direttamente l’attività che si sta svolgendo.

Molte delle attività in cui gli esseri umani sono quotidianamente impegnati vengono influenzate dalle motivazioni estrinseche, le quali favoriscono il raggiungimento di traguardi a breve termine; per gli obiettivi a lungo termine sono sicuramente più efficaci le motivazioni intrinseche.

Le motivazioni estrinseche e quelle intrinseche non sono da considerare alternative le une alle altre ma piuttosto complementari.

In ogni processo decisionale è possibile trovare tre elementi distintivi:

• l’obiettivo, inteso come rappresentazione mentale di ciò che si desidera raggiungere;

• l’aspettativa che il soggetto ripone nei confronti delle proprie capacità di raggiungere l’obiettivo;

• la reazione emotiva che accompagna le varie fasi del processo.

Ovviamente, tutti e tre gli elementi sono influenzati dal patrimonio di successi/insuccessi sperimentati in precedenza, e che ciascuno si porta dentro.

Un individuo motivato è tale quando tende verso un obiettivo, cioè quando si rappresenta un risultato da conseguire. Poiché le situazioni della vita, soprattutto quelle nuove, possono presentare sia opportunità che rischi, nel corso dell’evoluzione sono stati selezionati due diversi sistemi fra loro antagonisti, la curiosità che porta ad avvicinarsi ad una certa situazione e la paura che porta invece ad allontanarsi.

Per questo motivo gli psicologi motivazionali distinguono due tipi di obiettivi quelli di avvicinamento, che presuppongono il raggiungimento attivo di traguardi desiderabili, i quali si accompagnano a pensieri, fantasie ed emozioni positive, e quelli di evitamento, che presuppongono l’evitamento passivo di perdite e danni, i quali si accompagnano a pensieri, fantasie ed emozioni negative. Normalmente, in gioventù tendono a prevalere gli obiettivi di avvicinamento, mentre nell’età avanzata quelli di evitamento.

La motivazione a legarsi ad uno specifico obiettivo procede di pari passo con le fantasie; quelle positive agiscono quasi sempre accrescendo la motivazione, poiché la rappresentazione mentale positiva di un obiettivo contribuisce a creare un legame affettivo con esso. Tuttavia, se l’attività fantastica diventa eccessiva, essendo le fantasie di per sé in grado di indurre emozioni analoghe a quelle che si verificherebbero nel momento in cui il traguardo venisse effettivamente raggiunto, finisce per avere un effetto demotivante che fa perdere di vista l’obiettivo. Parimenti, l’uso esasperato di fantasie negative, che dia cioè spazio esclusivamente all’immaginazione dei risvolti negativi di una certa situazione, produce emozioni negative ed un effetto altrettanto demotivante.

Un processo cognitivo importante ai fini della comprensione dei meccanismi motivazionali è il cosiddetto senso di autoefficacia percepita. Non si tratta della generica fiducia che le persone possono riporre in se stesse, ma della convinzione di essere all’altezza di certe situazioni, di poter affrontare efficacemente alcune prove, di essere in grado di cimentarsi in determinate attività o di svolgere compiti specifici. Solitamente nelle attività di tutti i giorni, in cui ciascuno sa già cosa fare, non nasce il bisogno di chiedersi se si è capaci o meno di fare le cose, ma nelle situazioni nuove, soprattutto se importanti o complesse, è naturale interrogarsi sulle proprie abilità e sulla possibilità di riuscita. Quindi col termine autoefficacia si fa riferimento alle aspettative che una persona ha di padroneggiare con successo una situazione nuova. Per affrontare in modo adeguato questo tipo di situazioni è importante non solo sapere cosa fare e quali abilità impiegare, ma anche saperle utilizzare correttamente. Ci sono persone che pur avendo capacità e talento, non utilizzano le proprie risorse semplicemente perché non sono convinte di poterlo fare. A parità di competenze possedute, il senso di autoefficacia percepita influenza sia gli obiettivi scelti che l’accettazione dei rischi che si è disposti a correre; quanto maggiore è il senso di autoefficacia, tanto più grandi saranno gli obiettivi di avvicinamento scelti e tanto più intensi saranno l’impegno e la perseveranza per portarli a termine. Al contrario, gli individui che vedono se stessi come dotati di scarsa autoefficacia nell’affrontare nuove sfide, diventano facilmente preda di ansia o paura e sviluppano obiettivi di evitamento al solo scopo di ridurre il livello delle proprie emozioni negative.

Se un individuo dotato di un buon senso di autoefficacia si trova di fronte a delle avversità, egli tenderà comunque a perseverare nel conseguimento dei propri obiettivi; se, di contro, un individuo possiede un basso senso di autoefficacia e si trova di fronte alle medesime avversità, facilmente tenderà a rinunciare al conseguimento dei traguardi prefissati, rafforzando in sé il convincimento di non essere in grado di agire in maniera efficace ed autonoma. Le persone che si percepiscono efficaci agiscono, pensano e sentono in maniera opposta rispetto a quelle che si percepiscono inefficaci; le prime costruiscono il proprio futuro operando attivamente sugli eventi, le seconde tendono a subire le circostanze assumendo un ruolo piuttosto passivo.

Raggiungere obiettivi proficui e soddisfacenti richiede anche una buona dose di tolleranza nei confronti di disagi e frustrazioni. Il raggiungimento di un traguardo è un po’ come scalare una montagna; presenta delle difficoltà ed è faticoso. Perciò non è saggio intraprendere la scalata senza un adeguato livello di preparazione e senza prevedere che lungo il percorso si incontreranno insidie e disagi fisici, ma se si comincia la salita e si riesce ad arrivare fino in fondo, tutti descrivono come piacevole l’esperienza del raggiungere la vetta. Se la gente continua a scalare le montagne volontariamente e senza alcun compenso è soltanto perché riesce a provare piacere nello scoprire di essere capace di padroneggiare una situazione che si sa già non essere facile; detto in altri termini, è piacevole vedere crescere il senso di autoefficacia.

Se una persona non è attrezzata a tollerare disagi e frustrazioni facilmente tenderà a procrastinare la sua decisione o, peggio ancora, ad abbandonare il campo perdendo di vista il proprio obiettivo.

La tendenza a rinviare una decisione è un comportamento assai diffuso. Tuttavia, quando il ricorso alla procrastinazione diventa eccessivo ed abitudinario, esso fa perdere una marea di tempo, toglie energie, mina la creatività, ma cosa più importante, finisce per determinare stress in chi la attua. I “procrastinatori” sono persone esageratamente meticolose che, forse proprio in virtù di questo atteggiamento, hanno un’enorme difficoltà ad agire in base alle loro buone intenzioni.

Il motivo per cui il “procrastinatore” tende a rinviare le sue decisioni è che il suo rinvio fornisce un’immediata gratificazione, rappresentata dalla riduzione dell’ansia che spesso accompagna il processo decisionale. Il segreto inconfessato dei “procrastinatori” è che usano il distogliere l’attenzione dal problema come mezzo per regolare il proprio stato emotivo, che è quasi sempre determinato dalla paura di fallire